Smart work e Soft skill

(Parte 1)

Per vari motivi – non da ultimo l’esigenza di assicurare continuità produttiva nel corso dell’emergenza determinata dal Virus Covid-19 e dai provvedimenti delle Autorità – un numero importante di imprese e, conseguentemente, di lavoratori si sono rapidamente convertiti allo smart working e già non mancano auspici che questa modalità di lavoro possa confermarsi, espandersi e divenire una delle realtà “normali” di questa nostra epoca.

Siamo d’accordo e vorremmo riflettere su alcune caratteristiche personali che risulterebbe preferibile fossero possedute dagli smart worker.

Preliminarmente, tuttavia, non è inutile sottolineare tre questioni che dovrebbero aver ben maggiore approfondimento di quanto questi momenti concitati consentano.

In primo luogo, una considerazione linguistica: smart non significa affatto “agile” come solitamente viene tradotto, bensì intelligente, brillante. Pare che la differenza non sia da poco e, dato che le parole finiscono per tracciare una via, nel lavoro preferiamo parlare di intelligenza piuttosto che di agilità.

In secondo luogo, occorre ricordare che lo smart work non è assimilabile al telelavoro, come frettolosamente – e in maniera forse interessata – si vuol far credere. Certo, l’adozione di modalità di lavoro a distanza, pur con tutte le possibili controindicazioni, può essere una soluzione “intelligente”, ma il telelavoro può non essere affatto smart (come ben sanno i lavoratori) così come si può essere smart anche lavorando insieme ad altri.

In sostanza, da ultimo, il lavoro lo si rende smart solo con la messa a punto di una nuova e diversa organizzazione: degli uffici, delle procedure e dei processi di lavoro, dei ruoli e dei rapporti, dei sistemi e dei criteri di gestione delle risorse umane.

Come noto, infatti, ogni assetto tecnologico e organizzativo ha finito per definire, attraverso il meccanismo di job requirement associato alla definizione delle attività, i requisiti dei lavoratori che in quel momento risultano preferibili. D’altra parte, è intuitivo che, al variare delle regole organizzative – e dunque al variare del ruolo dei Capi supervisori, dell’autonomia concessa al lavoratore, dalla maggiore o minore prescrittività della mansione, del fabbisogno di conoscenze e di capacità, etc. – si manifesti la necessità di disporre di lavoratori in possesso di differenti e specifici requisiti. Così come è intuitivo che, attualmente, la tecnologia disponibile consente la definizione di modelli organizzativi più articolati e flessibili, mentre l’IT e gli stessi “social” consentono modalità di comunicazione, di lavoro e di controllo praticamente senza la stretta necessità di un rapporto vis a vis con Colleghi e Capi.

In altri termini, se al lavoratore della fabbrica tayloristica si chiedeva poco più che eseguire istruzioni semplici e prescrittive – e dunque della capacità di sostenere lo sforzo fisico e mentale della mansione – la storia della innovazione tecnologica e dunque della trasformazione organizzativa, ha visto in maniera progressiva “complicarsi” la mansione (in qualche caso parliamo di job enlargement e talvolta addirittura di job enrichment) che richiedeva, in maniera crescente, il possesso da parte del lavoratore di competenze sempre più articolate e complesse, affiancate da capacità personali (capacità decisionale, comunicativa, lavorare in gruppo, assertività, etc.) ben al di là della semplice realizzazione operativa del compito. Sino a quando, in ambiente prevalentemente impiegatizio e caratterizzato dalla IT, compare la richiesta di altre e ancor più complesse risorse personali (problem solving, flessibilità, engagement, autocontrollo, orientamento al risultato, etc.) che dovrà possedere il lavoratore, che ormai opera in organizzazioni “piatte” con pochi livelli di supervisione, in un ambiente competitivo e tendenzialmente meritocratico. La mansione, tuttavia, non è di per sé più ricca: anzi, per molti, forse per la maggioranza, l’IT ha voluto dire veder incorporato il know how professionale nella macchina, residuando al lavoratore il compito di alimentarla con dati e informazioni e di gestirne gli ouput.

Autore di questo articolo è Giorgio Sangiorgi, Professore di Psicologia delle Organizzazioni e creatore di MITO

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